lunedì 5 novembre 2007

Historia ed historieta

Quando mi sono accostato al mondo del fumetto, l’idea che ne avevo era assai comune.

Il fumetto era (e non poteva non essere) strumento di svago, di assoluto divertimento, difficilmente classificabile come letteratura, quand’anche si volesse usare, per accompagnare il sostantivo, l’attributo “minore”.

In quanto tale, esso era (nell’idea che ne avevo, continuo a dirlo) destinato ai bambini e solo raramente riusciva ad annoverare titoli godibili anche da un pubblico maturo.

Questa sorta di eccezione era stata concepita dalla mia coscienza nel tentativo di trovare giustificazioni al fatto che compravo Rat-man (che, lo ammetto, continuo ad acquistare).

Historieta, dunque, come chiamano il fumetto gli Argentini, riflettendo nella coscienza collettiva – credo – quell’idea di strumento di comunicazione minore destinato solo ad intrattenere ed a distrarre.

Poi l’Enola Gay ha sganciato la bomba.

Ma qui mi tocca fare un passo indietro. Non ho ancora detto della mia passione per la storia: chi voglia farsene un’idea si consideri invitato nel mio studio, una stanza le cui pareti sono interamente (e non è un’esagerazione) rivestite di scaffali sui quali ormai posteggio i libri in doppia fila.

Passione nella passione, poi, la seconda guerra mondiale, in parte perché è da quella che deriva tanta parte della situazione geopolitica attuale e, dunque, è in quella che cerco di trovare le spiegazioni di molti dei grandi fatti del secolo scorso e di quello appena iniziato; in parte perché degli zii di mia madre l’hanno vissuta in prima persona e, quando da piccolo ero loro ospite, me ne hanno raccontate [forse è proprio per questa duplicità di ragioni che, quando parlo di storia, non penso soltanto a quella scritta con la “S” maiuscola, la storia di generali, di eserciti, di Stati, ma anche agli infinitesimi frammenti che la compongono, alla storia “minuscola” di singoli individui, di “genti meccaniche e di piccolo affare”].

Ma torniamo a dov’ero: all’Enola Gay, alla bomba.

Circa due anni or sono, leggevo un libro di storia, “Hiroshima”, di John Hersey, uscito per i tipi della PIEMME. Si tratta di una raccolta delle testimonianze di sei persone che si trovavano ad Hiroshima il 6 agosto del 1945 e sono sopravvisssute. Storia piccola, dunque, in grado tuttavia di ben illuminare quanto crudele ed inarrestabile era stato allora l’ingranaggio della storia “maiuscola”.

Un caro amico, consapevole di questa mia passione ed a conoscenza di quella lettura, tornò dal Comicstore con una notizia: parlando con Giulio aveva scoperto che in negozio c’era ancora una rara copia di un fumetto che parlava di Hiroshima.

Confesso la mia perplessità: “Storia a fumetti” era, per me, ossimoro destinato a non trovare mai composizione. L’unica storia per immagini a cui riconoscevo dignità era quella dei documentari televisivi. Ma qui le immagini erano reali, non certo disegni di autori che nel chiuso dei loro studioli, inconsapevoli della realtà, gettavano china sul bianco dei fogli per raccontare, come cantastorie, favole per bambini.

Tuttavia, quando, qualche giorno dopo, entrai da Giulio, decisi di leggere la quarta di copertina del fumetto in quattro volumi di Keiji Nakazawa, dal prezzo stampato ancora in lire (25.000 l’uno, per l’esattezza). Riporto integralmente: “Gen di Hiroshima è il tragico resoconto del lancio della prima bomba atomica…”. Sin qui continuavo a vedere l’operazione “letteraria” quasi come un’irriverenza verso la serietà e la drammaticità dell’evento narrato. Ma la quarta continuava: …“Un toccante racconto autobiografico…”. Fu quell’aggettivo, “autobiografico” a sconvolgermi: la bomba, in quel momento, era stata sganciata sulle mie convinzioni e le aveva lasciate in macerie. Un’autobiografia, una testimonianza diretta come quella dei sei sopravvissuti del libro di Hersey che però l’autore aveva deciso di non inserire tra le pagine di un libro di una blasonata casa editrice, bensì in un fumetto.

Il fatto cominciava ad assumere contorni nuovi.

Comprai i quattro volumi e cominciai a leggerli, inconsciamente – credo – per cercare di smentire il racconto attraverso il confronto con il libro, quello “serio” e confermare quello in cui avevo sempre creduto. Ma più mi addentravo nella lettura più mi accorgevo che quanto raccontato da Nakazawa era identico a quello che avevano visto i sei di Hersey; con la particolarità, tuttavia, che quella che leggevo adesso era una testimonianza fatta per immagini, vere fotografie in strisce di china. Fotografie, per giunta, nelle quali il tratto riusciva ad esprimere anche i sentimenti del fotografo (potere che spesso ad un vero fotografo è negato).

Se avessi letto Gen prima del libro della Piemme probabilmente - proprio perché si trattava di un fumetto e proprio perché io ero quello che ero - l’avrei trovato esagerato ed avrei confermato le mie idee sulla historieta: ad esempio, quando Nakazawa, in alcune strisce, disegna uomini con la pelle che, liquefatta, scivola via dagli arti. Ma di pelle liquefatta parlavano anche i sei di Hersey. Così ho capito.

Nakazawa non disegnava affatto: ritraeva.

E la sua historieta era historia.

Oggi, a distanza di due anni, divoro fumetti storici che considero per quello che in realtà sono: reportages, documenti che hanno eguale dignità di libroni dalle copertine rivestite, fitti di parole e senza nessuna immagine.

Sono un pentito.

Non parlerò, per il momento, delle successive letture (non voglio bruciare subito il materiale per futuri articoli), ma voglio sottolineare una curiosità.

La quarta di copertina di Gen di Hiroshima continuava con dei commenti. Ne riporto uno: “Gen è uno di quei pochi fumetti che oggi sono in grado di compiere una magia: far nascere quei piccoli segni sulla carta dalla vita vera. Questa intensa e straziante storia brucerà nella vostra memoria come un cratere radioattivo e non potrete più scordarvela”.

Sono parole di quello che per me, allora, era soltanto un nome scritto in stampatello: Art Spiegelman.

Vito Carella

8 commenti:

Egidio Marone ha detto...

Ciao Vito,
complimenti per l'articolo, che sottoscrivo in pieno. Ho letto Gen di Hiroshima con le lacrime agli occhi e mi fa piacere che tu, ti sia avvicinato alla letteratura disegnata attraverso quest'opera.
Purtroppo come tu hai efficacemente sottolineato, i comics sono da sempre relegati in un angolino angusto della cultura.
Dal canto mio, che i fumetti li disegno anche, mi sono stancato di combattere con chi non vuole accorgersi della potenza espressiva di questo medium.
Chi vuole capire capisce, chi d'altro canto vuole continuare a privarsi di qualcosa di meraviglioso...cazzi suoi.
Ciao e aspetto con impazienza il tuo articolo su MAUS così ne parliamo un po'.

Giulio Laurenzi ha detto...

Un commento al volo (con mia figlia in braccio) per ringraziarti per il tuo bellissimo articolo.
Complimenti!

Anonimo ha detto...

Quando ero piccolo non amavo leggere! Questo era un enorme cruccio, tanto per me, quanto per i miei genitori che, nei penosi incontri scuola – famiglia, si sentivano ordinariamente ripetere: “Non va, non va, non vuole leggere!” Che iattura, saper leggere, come asseriva la mia accigliata istitutrice, era il presupposto per poter scrivere correttamente e parlare correntemente. Alle gare di lettura io ero un “N.C.”: un non classificato. I compagni mi deridevano perché balbettavo e più balbettavo più i miei compagni mi deridevano, e più mi deridevano più mi rifiutavo di leggere, e più mi rifiutavo di leggere più regredivo, e più regredivo più balbettavo….ed i miei compagni mi deridevano. Le uniche due soluzioni che riuscivo ad immaginare quali possibili rimedi ad uno stato di cose ormai intollerabile erano: 1) invitare tutti i miei compagni alla festa per il mio decimo compleanno, preparare una torta meravigliosa e farcirla con veleno per topi; 2) arrendermi e rinunciare una volta per tutte al sogno di poter abitare il mondo. Scelsi la prima!!! Infatti, sto scrivendo da San Vittore! Ehilà, scherzavo!!!
Tornando alla mia esperienza, l’insegnante di italiano non mancò di mettere la pulce nelle orecchie dei miei genitori: “Forse, il bambino è dislessico!” Dis….che?!?
Sennonché il giorno del mio decimo genetliaco, nonna Ubalda mi fece un regalo inusitato, un libro a fumetti! Fu contestata, ovviamente, da tutto il lignaggio, che, come i re Magi con Gesù bambino, si era, invece, presentato con strenne luccicanti, in quello che è una sorta di certame in cui vince chi ha sborsato di più. Non solo l’incauta nonnina non mi aveva regalato il solito braccialetto d’oro, con tanto di brillante incastonato e ciondolo con corno portafortuna, ma neppure un libro vero. Un libro a fumetti era una contraddizione in termini, suonava come uno sproposito.
Quello, però, fu il primo libro che lessi senza barbugliare: le immagini mi parlavano da sole ed io, quasi per rendergli il favore, mi impegnai per non essere quantomeno un analfabeta dei fumetti. Fu l’inizio, un hors d’oeuvre. A scuola le cose cominciarono ad andar meglio. Invitai i miei compagni al mio decimo compleanno ed i miei genitori decisero di acquistare la torta in una confetteria, non si sa mai…
Ebbene sì, la password per l’accesso alla lettura non fu uno strizzacervelli, uno psicoanalista o un medico blasonato ma un semplice fumetto.
Ricordo i vari Nonna Abelarda, Dylan Dog, Soldino, Tintin, Popeye ma, soprattutto, Geppo, diavolo chiaramente fuori posto in un inferno burocratico e crudele, (un po’ come mi sentivo io).
Le immagini, utilizzate come strumento di narrazione, hanno avuto un posto di primo piano nella mia storia. E non solo nella mia: basti pensare ai memoriali di guerra e di caccia rappresentati dai primi uomini delle caverne; alle vignette colorate disegnate sui papiri dell’Antico Egitto; ai bassorilievi che, ricoprendo la Colonna Traiana eretta a Roma nel 113 d.c., celebrarono in una successione di vignette scolpite nel marmo la vittoria dell’imperatore Traiano sui Daci; alle didascalie in latino e in volgare che nel Medio Evo hanno commentato, per le popolazioni meno istruite, le illustrazioni della “Bibbia pauperum”; alle didascalie che accompagnarono nel famoso arazzo di Bayeux (XI sec.) le scene della conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni di Guglielmo il Conquistatore.
Questa è la prova ulteriore che il linguaggio fumetto può raccontare i momenti più profondi dell’esistenza umana. Allo stesso modo di un romanzo, di un racconto. Ed al pari di quelli merita di stare accanto ai libri di storia, alle analisi giornalistiche, alle riviste politiche o di satira. Con un accorgimento, però. Se è vero che il fumetto è un prodotto strutturato, capace di rapportarsi con le arti preesistenti, da cui può mutuare oggetto, forma, contenuti o tecniche di montaggio, (come avviene con la decima musa), alternando, ad esempio, piani diversi l’uno dall’altro, come il close up, il campo lungo ecc., ciò non impedisce di valutarlo come espressione “nature”, autonoma, indipendente, originale, la “nona arte” per eccellenza.
Concludo ringraziando voi tutti, Giulio, Egidio ed, in particolare, Vito per la potenza e l’importanza del suo linguaggio ma, ancor prima della sua esperienza, per il suo contributo e, parimenti, tributo alla complessa e difficile arte di scrivere di fumetti. Col suo bel modo di mettere le parole insieme, semplice, sobrio e vigoroso è riuscito a render giustizia ad un ulteriore canale di conoscenza che è Historia e non Historieta. Sicché, prendendo a prestito le parole di Antonio Baldini, e rinnovando la mia gratitudine, concludo ricordando che “il senso della storia si conquista facendone un po’”.Voi ci state riuscendo.

Giulio Laurenzi ha detto...

Un commento così bello andava almeno firmato :-)

Anonimo ha detto...

Ops...Sorry....Chiedo perdono...Mi chiamo Rino...Non volevo mantenere l'anonimato. Non c'ho pensato. Grazie Giulio per l'aggettivo "bello" che segue la parola commento....Grazie per quello che fai... Grazie perchè ci dai la possibilità di consegnare alla "carta" i nostri pensieri...

Giulio Laurenzi ha detto...

Se ci scrivi a info@lanuvolascarlatta.org, ti mandiamo un invito a far parte della nostra "redazione virtuale"...
Grazie, Giulio Laurenzi.

Egidio Marone ha detto...

Ciao Rino!
Grazie per aver postato il tuo bellissimo commento. Anzi, più che commentare, hai raccontato di te e di ciò che hanno rappresentato i comics nella tua vita. Ancora complimenti, anche perchè il tuo "commento" supera di gran lunga alcuni articoli presenti in questo Blog (compreso il mio).
Ciao e mi raccomando: continua a scrivere!

ciampax ha detto...

L'articolo di Vito mi ha toccato molto. Avevo guardato un paio di pagine di gen sugli scaffali del Comicstore qualche hanno fa, ma vuoi per i soldi (allora ero ancora studente senza lavoro) vuoi per una sorta di ritrosia a leggere storie "vere" (le mie favorite restano sempre e comunque le fiction puramente inventate e intricate) avevo rinunciato all'idea di acquistarlo (e per fortuna altrimenti il buon Vito se lo sarebbe perso)! E bello vedere che un fumetto solo possa farci ricredere di quella un po' stupida convinzione che i "disegni di carta" non possano ritrarre la realtà (anche se magari solo romanzata) e che, al contrario, possano essere uno strumento per arrivare lì dove, semplici parole o le migliori e più dettagliate descrizioni non riescono a disegnare (è proprio il caso di dirlo) il quadro esatto della Storia! Grazie per aver condiviso questa passione e questa storia con noi Vito!