martedì 27 novembre 2007

L'aveva invitata a cena...

Ciao ragazzi. Vi sottopongo quest'altra immagine. Per evitare contrasti sulle dimensioni del seno, questa volta il personaggio è rappresentato di spalle....

Gerardo C.

domenica 18 novembre 2007

Demolizioni e fusi orari

Ho già detto del fatto che il fumetto ricopre oggi ruoli molto diversi da quelli solitamente attribuitigli, riempiendo spazi colpevolmente lasciati vuoti da blasonate case editrici della letteratura “maggiore”.
Ulteriore prova di quest’affermazione può trovarsi in un lavoro coreano - edito in Italia nel 2006 - che racconta un episodio storico della guerra di Corea [1]: il ponte di Nogunri. 
- Il ponte di No che? – 
Se avete pensato così, sappiate che sono parole identiche a quelle che mi sono passate per la mente leggendo il titolo rosso stampato sulla copertina di questo volume di oltre 600 pagine della Coconino Press, parte di un progetto in più tomi che, purtroppo, non ha ancora visto il compimento.
Col tempo ho capito: ero stato dietro ad un muro troppo alto, per vedere quel ponte. Ma veniamo al racconto.
La storia è quella vissuta in prima persona da Chung Eun-Yong (uno dei due autori del fumetto ed autore unico del libro da cui il fumetto è tratto) che, nel 1950, all’avanzare delle truppe nord coreane, è costretto ad abbandonare con la sua famiglia il villaggio in cui vive e, pochi giorni dopo, a separarsi dalla moglie, dai due figli e dai vecchi genitori.
La prima parte del racconto si incentra sulla lunga fuga di Chung, sui drammi degli sfollati cui assiste, sulla sua ricerca dei familiari perduti, fino a terminare con il ritrovamento della moglie nel campo sfollati n. 19002.
L’incontro dei due coniugi, che normalmente costituirebbe la fine dell’angoscia connessa alla separazione è, in realtà, nella tragedia narrata, solo il preludio della seconda parte della narrazione, quella ben più cruda e dolorosa.
Chung, infatti, apprende dalla moglie della morte dei due figli e dei propri genitori, uccisi da uomini che aveva creduto alleati: i soldati americani.
A questa deposizione Chung ha aggiunto quelle raccolte negli anni dalla viva voce di altri testimoni, ricostruendo il quadro dei fatti: truppe americane in ritirata, cadute giorni addietro in un'imboscata dei soldati nord- coreani travestiti da profughi, nel luglio del 1950 avevano incontrato nei pressi di No gun Ri la colonna di profughi di cui faceva parte la famiglia di Chung; temendo la presenza di infiltrati nordcoreani, avevano deciso un “attacco preventivo”; i profughi erano stati, dunque, prima bombardati dagli aerei, poi colpiti dalle raffiche delle mitragliatrici; avevano cercato rifugio sotto gli archi di un ponte ferroviario (quello che dà il titolo al libro) e lì erano restati quattro giorni e quattro notti, senza né acqua né cibo, bersagliati dai soldati che uccidevano chiunque osasse muoversi.
Quando gli americani erano andati via, delle circa 500 persone che erano fuggite, erano rimasti in vita solo in 25, in maggioranza bambini a cui i genitori avevano fatto scudo col proprio corpo.
Questi i fatti, a me ignoti - come detto - e credo anche ai più.
Ma, come accennato, la colpa di questa ignoranza non va cercata in Corea. Essa sta tutta in un muro costruito a migliaia di kilometri di distanza da No Gun Ri: il muro di Berlino.
Della vicenda, infatti, l’opinione pubblica coreana e mondiale, non ha saputo nulla sino alla fine della contrapposizione dei blocchi sovietico ed americano, sino alla caduta del muro che ha diviso in due una città, un popolo, il mondo intero, un muro troppo alto che ha impedito di vedere quei fornici sporchi di sangue e che, inoltre, ha imbavagliato con ferro e cemento le voci di vittime invocanti giustizia.
Per la Corea, in verità, e per i morti di No Gun Ri, il muro non è stato demolito nel 1989, ma – ironia dei fusi orari della storia – solo nel 1997, quando alcuni dei coreani sopravvissuti all’eccidio, riunitisi in associazione, hanno potuto denunciare ufficialmente l'accaduto.
La loro denuncia è stata raccolta dai reporter dell'Associated Press che hanno iniziato un serio lavoro di inchiesta che li ha portati a scoprire ed a pubblicare la verità - ad onta delle sconfessioni dell’esercito statunitense - fino al conseguimento, per la serietà ed accuratezza della indagine, del premio Pulitzer [per chi fosse interessato ad approfondire, Wikipedia.org offre un accurato resoconto alla voce NO GUN RI (in inglese)].
Unica testimonianza stampata di quei fatti è oggi in Italia un fumetto che, lungi dall’essere racconto per bambini, può senza dubbio prendere posto nelle biblioteche tra importanti opere storiche, caratterizzandosi per la serietà ed il rigore della testimonianza autoptica.

EPILOGO

Il primo volume del ponte di No Gun Ri, tuttavia, non si chiude con la cronaca della strage, giungendo - nella narrazione - sino all’inverno del ‘55.
Chung corre ancora, come quando dovette abbandonare il suo villaggio. Tuttavia stavolta non fugge: va verso casa.
Apre la porta.
Sua moglie è a letto; accanto a lei, un neonato. Chung lo solleva, il bimbo inizia a piangere.
E piange anche Chung, impastando nelle lacrime la gioia di chi torna a vedere il futuro con il dolore, ancora vibrante, di un padre privato dei suoi figli, mentre le urla del piccolo si stemperano nel fischio di un treno che, nella sua corsa, supera il buio di quel ponte a due archi sul quale tante altre volte sarà costretto a tornare.
Vito Carella

P.S. Termino quest’articolo con due ringraziamenti e delle scuse: 
- un ringraziamento a tutti quelli che hanno letto (anche ove non avessero gradito) il precedente articolo su Gen di Hiroshima (ovviamente ringrazio con più affetto chi lo ha gradito!!!);
- un ringraziamento a Giulio, per avermi consigliato il libro di cui ho parlato [consiglio col quale si è ampiamente riscattato da alcuni infelici suggerimenti per i quali ha ricevuto diverse litanie di improperi];
- delle scuse a tutti per la fretta con cui mi capita di scrivere e postare i pezzi, dovute al fatto che posso dedicare a ciò solo i pomeriggi domenicali;
- delle scuse ad Egidio, perché non mi sento ancora pronto per affrontare un articolo su Maus: prometto che ci lavorerò.


[1]
La Corea, dopo oltre un trentennio di dominazione giapponese, durante la seconda guerra mondiale era stata occupata a nord dall’esercito sovietico, a sud da quello statunitense. Alla fine delle ostilità, il paese venne diviso in due, con un confine segnato lungo la linea del 38° parallelo. Nell’area settentrionale si formò un governo comunista filosovietico; in quella meridionale un governo nazionalista filoamericano. Nella notte del 25 giugno 1950, la netta contrapposizione ideologica, la strettissima contiguità, il clima di sospetti tipico di una guerra fredda agli inizi, spinsero le truppe nord coreane ad invadere il sud, raccogliendo, inizialmente, una serie di folgoranti successi che portarono sino all’occupazione di Seoul. Le sorti del conflitto si riequilibrarono in seguito, con la controffensiva delle truppe del Sud e la conclusione di un accordo di pace che confermò lo stato preesistente alla guerra stessa. Furono 1.500.000 i civili morti nel conflitto, 1 milione di nordcoreani e 500.000 sudcoreani.

mercoledì 14 novembre 2007

Seminario "Introduzione alla fotografia"

L’Associazione Culturale “LA NUVOLA SCARLATTA” organizza per il giorno 25 novembre dalle ore 16.00 alle ore 19.30 presso il Centro di Formazione “DOC - Archiviazione Documentale” sita in C.da Centomani, 11 all’ingresso dell’uscita autostradale Potenza Ovest un seminario su


"Introduzione alla Fotografia - Tecniche e strumenti"


Docente “fotografo Ernesto Salinardi”

Il costo di partecipazione è di 8.00 € , 5.00 € per studenti universitari muniti di libretto universitario o attestato di iscrizione.

Durante il seminario saranno raccolte le adesioni al corso di fotografia che prenderà il via nel mese di dicembre.

Il seminario è aperto ad un massimo di 20 persone e per partecipare è necessario iscriversi presso la fumetteria ComicStore in Via Mazzini 119 a Potenza entro il 22 novembre.

Per info 0971 22606

Marcello Faggella

lunedì 12 novembre 2007

Storie di lotte tra spiriti... al Kubo!

Per chi legge manga da anni e si sente totalmente immerso in questo mondo, ma anche chi si avvicina a tale prodotto solo attraverso i pochi (e censurati) anime che di tanto in tanto appaiono sulle nostre emittenti televisive, è cosa nota che uno dei filoni che la fa da padrone (circa il 70% delle lunghe saghe e delle miniserie si basano su questo tema) è quello dei "combattimenti".


Certo, le tematiche e le modalità di narrazione di tali manga sono le più svariate: si va dalle guerre aliene, alle scaramucce da scuola superiore, alle lotte tra spiriti buoni ed esseri maligni, addirittura alle Guerre Sante tra Divinità di ogni Pantheon possibile ed immaginabile. Ciò che accomuna tali storie è che, di base, sempre di lotta (all'arma Bianca, Nera o tramite superpoteri di ogni sorta che sia) si tratta.

Tutto ciò fa nascere un interrogativo interessante: se alla fin fine sono tutti manga di lotta (e vi assicuro che ci sono spesso, per ogni manga famoso e di grande seguito, almeno una decina di pseudo cloni che usano idee simili e, a volte, personaggi cliché dello stesso impatto visivo) dove sta l'innovazione in ogni singola opera? E, sopratutto, come mai hanno tutti (anche i cloni sì, per quanto possa sembrare strano) un così vasto seguito?

La risposta a tale interrogativo sta nelle invenzioni narrative (spesso geniali) che i mangaka (i disegnatori, per intenderci) hanno saputo trovare nel corso delle narrazioni. Innanzitutto, va precisato un fatto: se fino a dieci anni fa anche il più grande manga di successo veniva costruito passo dopo passo, seguendo una linea di base per lo più abbozzata e arrivando, grazie anche a suggerimenti di fan e indagini di mercato, ad un risultato finale che non era così ben definito nella mente degli autori quando il progetto partiva, oggi i mangaka dedicano una attenzione quasi maniacale alla stesura di un plot narrativo di base molto più dettagliato e carico di riferimenti da seguire nel corso della stesura dell'opera. Ciò lo si può intuire dalla costruzione perfetta e minuziosa di certe vicende (quelle principali, per intenderci) che guidano le nuove storie atraverso situazioni secondarie e sottotrame che arrichiscono il racconto. L'esempio più eclatante di tale metodo di "studio a tavolino della trama" spetta senz'altro a Naruto, manga che in questi anni ha risvegliato una valanga di fanatici in ogni parte del mondo.

Ma ciò di cui vogliamo occuparci in questo articolo, non è tanto il nuovo metodo narrativo adottato dai mangaka, bensì di quelle scintille di genialità che rendono un semplice manga di lotta un'opera degna di attenzione. Nei manga in cui ci si mena di santa ragione, alla fin fine sono state utilizzate nel corso degli ultimi 30 anni tutte le possibili idee: calci, pugni, armi, poteri E.S.P. o del genere mutanti, doti innate dei personaggi, il Cosmo dei Cavalieri dello Zodiaco e gli Tsubo (punti di pressione) in Ken il guerriero. Sembrerebbe che tutte le carte siano state giocate e non si possa far altro che modificare storie e tecniche per rendere il manga piacevole.

Niente di più falso, Signore e Signori. E' qui che il genio inventivo prende il sopravvento ed esce fuori con una grande invenzione. Nel 1986, Akira Toryama, nel suo ormai straconosciuto Dragonball, inventa la tecnica dell'energia spirituale: i combattenti possono accedere all'energia del loro animo e, così facendo, essere in grado di scagliare fuori dal loro corpo potenti ammassi energetici che possono distriggure, addirittura, un Pianeta in un colpo solo. Nel 1989, un altro grande maestro, Hirohiko Araki, nella terza serie de "Le bizzarre avventure di JoJo" inventa la tecnica di combattimento degli "Stand": esseri legati a doppio filo allo spirito del combattente umano da cui sono sprigionati, con poteri di ogni tipo, dal controllo degli elementi, fino alla capacità di modificare il tempo e lo spazio; le invenzioni e le possibilità di Araki risultano virtualmente inesauribili, tanto che JoJo è arrivato oggi ad una settima serie in cui la storia, in qualche modo, riparte dall'inizio.

Altri autori hanno avuto mirabili idee e hanno inventato tecniche di lotta peculiari per i loro manga, ma ciò che accade in "Bleach" di Tite Kubo, giovane mangaka giapponese che con le sue storie di spiriti sta conquistando il mondo, va oltre la semplice trovata innovativa.

Di cosa parla Beach? Di un mondo in cui vivono esseri chiamati shinigami (dei della morte), abbigliati in stile samurai (kimono nero, takana, sandali, calzini bianchi) che combattano e donano la pace agli spiriti dei morti sulla Terra, prima che essi, a causa della violenza, possano tramutarsi in Hollow, mostri affamati dell'animo dei viventi. Punto. Fino a qui la storia di Bleach sembra la versione 18477994237237416 di altrettante storie di spiriti e mostri già narrate.

Ma è a questo punto, in pratica dopo appena 3 numeri del manga, che Kubo ci sorprende e, se permettete, ci mostra una genialità davvero fuori dal comune. Il nostro inventa un intero mondo, la Soul Society, dove gli shinigami vivono, si allenano, trascorrono le loro esistenza come gli esseri umani qui sulla Terra, seguendo regole, tradizioni e stili di vita tipici del giappone del 1700 (ma con forti influenza scientifiche quasi futuristiche).

Ma non è questa la cosa sconvolgente. Ciò che rende Bleach unico è il numero sconfinato di personaggi, ognuno caratterizato con un proprio io e una propria personalità. E ognuno con la sua micidiale "Zampakuto", la spada dell'anima, con cui gli shinigami combattono. E' qui la grande innovazione. Certo un manga con personaggi pseudosamurai non poteva non trattare di spade; ma le Zampakuto non sono soltanto spade!

Ogni Zampakuto infatti possiede una propria anima e una propria identità: nasce insieme allo shinigami a cui si lega, si sviluppo con lui ed in lui, ed è a tutti gli effetti più un essere vivente radicato nell'animo dello shinigami che una semplice arma. Ma c'è di più. Ogni spada si manifesta in maniera differente e possiede un potere particolare, che la rende unica ed inimitabile. Le Zampakuto, nel loro stato "rilassato" hanno una forma esteriore di semplici Katane (alcune più grosse, altre più piccole, ma sostanzialmente tutte raffigurate con lo stesso stile e disegno). Tuttavia tali spade possono, una volta noto il loro "nome" (e su questa fatto si potrebbe aprire una disquisizione filosofica, cosa che probabilmente farò in un futuro non molto lontano), ottenere la loro manifestazione shikai: una forma più forte della stessa spada (anche se spesso le Zampakuto si trasformano in altre armi, tipo scudi, pugnali, lance o addirittura si sdoppiano) dotate già in questa fase di un proprio potere specifico, inimitabile da altre spade. Mentre il loro aspetto fisico resta sostanzialmente quello di un'arma, le Zampakuto in stato shikai possono anche manifestarsi tramite una proiezione psichica, in una forma antropomorfa, umana o animale differente da spada a spada: il protagonista del manga, Ichigo, vede la propria Zampakuto, Zangetsu, sotto forma di un "vecchio" dal volto scavato e avvolto in un mantello nero e sdrucito, mentre Renji Abarai, uno dei coprotagonisti più accattivanti della serie, vede la sua arma, Zabimaru, manifestarsi nella forma di un babbuino bianco la cui coda consiste di un serpente.

Ma è nella terza e ultima fase, il bankai, che lo splendore delle Zampakuto e la loro forza si manifesta nella forma migliore: non più spade, non più semplici armi, a volte creature dotate di una propria forza e una propria anima, altre oggetti di distruzione che esulano dalla semplice logica dello strumento di guerra, altre, infine, veri e propri mondi che imprigionano, nelle loro illusioni, gli avversari per poi abbatterli. La Zampakuto del già citato Renji, ad esempio, assume la forma di un serpente con la faccia di babbuino costituito da infinite lame; mentre la Zampakuto di un altro personaggio, Tousen, diventa un luogo che priva di ogni percezione sensoriale nel quale il solo Tousen (cieco dalla nascita) riesce a muoversi e colpire alla perfezione.

In definitiva Bleach è un manga che ha dalla sua una storia profonda e ricca di mistero (cosa di cui vi parlerò un'altra volta) e che può contare sulla genialità di un autore, Kubo, il quale per ogni singolo personaggio, fornisce non solo un passato e una vicenda ben definita, ma anche un alter ego e un potere che vanno oltre le semplici doti fisiche o mentali di altri guerrieri a cui siamo stati affezionati in passato.
Donato Ciampa

Tigerwoman


Ubbidisco ubbidiente all'ordine di Giulio e "posto" questa immagine che ho realizzato al fine di sottoporla al giudizio di voi tutti.

Gerardo C.

sabato 10 novembre 2007

ORION, L' EROE DIMENTICATO.



Ci sono personaggi che non fanno in tempo a essere partoriti, che subito trovano la ribalta di albi a fumetti, anime, merchandisig e quant’altro.
Poi ci sono gli eroi di carta come Orion. Eroi dalla vita difficile e tormentata, con pochi riconoscimenti e pochissima visibilità. Alzi la mano chi di voi ricorda la serie animata dedicata la nostro eroe. Sì trattò di un fugace e velocissimo passaggio nell’estate del 1986, quando sul territorio nazionale alcune emittenti private cominciarono a trasmettere gli episodi di “Techno Knight Orion”, o più semplicemente “Orion”, adattamento per il piccolo schermo di un manga molto amato in patria (anche se da pochi), ma praticamente sconosciuto in occidente. La forma in cui vennero mandati in onda gli episodi della serie, fu già di per sé curiosa: dei 39 episodi di cui si componeva, ne furono trasmessi qui da noi solo 8 in un unico passaggio! Avete capito bene: la serie non fu mai più trasmessa. La cosa risulta ancor più strana se si pensa che le emittenti erano tutte private e locali, quindi senza alcuna remora in fatto di diritti.
Il nostro paladino non nasce però sul piccolo schermo, ma sulle pagine del manga “Shinzu Ningen Orion” ideato da Tatsuo Yoshimura nel 1970, che non è mai stato pubblicato in Italia, neanche ora che diverse case editrici si sono decise a colmare alcuni vuoti più o meno clamorosi (hanno tradotto anche il manga di Fantaman…). Ma del resto, come biasimare chi non se la sente di pubblicare un prodotto di nicchia, quando a mancare è la nicchia stessa?
Perché allora proprio Orion è importante, visto che vi sono diversi altri casi analoghi? Perché al di là della valenza di questa serie come meteora nel panorama televisivo, rimane importantissimo il ruolo che ha rivestito come precursore di tutto il filone dei cosiddetti “supereroi giapponesi”, ovvero i vari Tekkaman, Kyashan, Gatchman etc. Supereroi che si ispiravano sì a quelli americani, ma con caratteristiche proprie molto marcate, che spesso insistevano sullo spessore umano dei personaggi. Il tributo che le serie citate devono a Orion è enorme, anzi, senza di lui probabilmente non avremmo avuto una valida alternativa alle saghe robotiche. Ma perché allora questa sorte da latitante?
Il dubbio che sul nostro eroe pesi un veto più che una dimenticanza è forte. Il materiale a lui dedicato scarseggia in maniera sospetta al di fuori del Giappone. Mi spiego: provate a inserire “Orion” in un qualsiasi motore di ricerca, i risultati saranno sempre multipli di zero. Per avere sue notizie dalla rete bisogna andare a scavare tra i siti specialistici nipponici! Qualche immagine come quella che correda questo articolo e poi scarse informazioni (in giapponese). Addirittura Yoshimura dopo avere supervisionato la serie animata, si dedica al charachter design per una nota casa di giocattoli e abbandona del tutto il mondo del fumetto… roba da watergate.
Ma questa è un’altra storia. La nostra ha raccontato di un eroe dimenticato, che come una meteora ha sfrecciato lungo i palinsesti senza lasciare traccia. Se ricordate le gesta del paladino in armatura che combatteva i suoi nemici al grido di “DISTORSORE DIMENSIONALE!!!”, oppure “VIBRAZIONI COSMICHE!!!”, vuol dire che invece di andare a giocare a pallone, nella calda estate del 1986 avete oziato dinnanzi al tubo catodico resistendo al richiamo della strada ma, come il sottoscritto, siete stati testimoni di un evento unico.

lunedì 5 novembre 2007

Historia ed historieta

Quando mi sono accostato al mondo del fumetto, l’idea che ne avevo era assai comune.

Il fumetto era (e non poteva non essere) strumento di svago, di assoluto divertimento, difficilmente classificabile come letteratura, quand’anche si volesse usare, per accompagnare il sostantivo, l’attributo “minore”.

In quanto tale, esso era (nell’idea che ne avevo, continuo a dirlo) destinato ai bambini e solo raramente riusciva ad annoverare titoli godibili anche da un pubblico maturo.

Questa sorta di eccezione era stata concepita dalla mia coscienza nel tentativo di trovare giustificazioni al fatto che compravo Rat-man (che, lo ammetto, continuo ad acquistare).

Historieta, dunque, come chiamano il fumetto gli Argentini, riflettendo nella coscienza collettiva – credo – quell’idea di strumento di comunicazione minore destinato solo ad intrattenere ed a distrarre.

Poi l’Enola Gay ha sganciato la bomba.

Ma qui mi tocca fare un passo indietro. Non ho ancora detto della mia passione per la storia: chi voglia farsene un’idea si consideri invitato nel mio studio, una stanza le cui pareti sono interamente (e non è un’esagerazione) rivestite di scaffali sui quali ormai posteggio i libri in doppia fila.

Passione nella passione, poi, la seconda guerra mondiale, in parte perché è da quella che deriva tanta parte della situazione geopolitica attuale e, dunque, è in quella che cerco di trovare le spiegazioni di molti dei grandi fatti del secolo scorso e di quello appena iniziato; in parte perché degli zii di mia madre l’hanno vissuta in prima persona e, quando da piccolo ero loro ospite, me ne hanno raccontate [forse è proprio per questa duplicità di ragioni che, quando parlo di storia, non penso soltanto a quella scritta con la “S” maiuscola, la storia di generali, di eserciti, di Stati, ma anche agli infinitesimi frammenti che la compongono, alla storia “minuscola” di singoli individui, di “genti meccaniche e di piccolo affare”].

Ma torniamo a dov’ero: all’Enola Gay, alla bomba.

Circa due anni or sono, leggevo un libro di storia, “Hiroshima”, di John Hersey, uscito per i tipi della PIEMME. Si tratta di una raccolta delle testimonianze di sei persone che si trovavano ad Hiroshima il 6 agosto del 1945 e sono sopravvisssute. Storia piccola, dunque, in grado tuttavia di ben illuminare quanto crudele ed inarrestabile era stato allora l’ingranaggio della storia “maiuscola”.

Un caro amico, consapevole di questa mia passione ed a conoscenza di quella lettura, tornò dal Comicstore con una notizia: parlando con Giulio aveva scoperto che in negozio c’era ancora una rara copia di un fumetto che parlava di Hiroshima.

Confesso la mia perplessità: “Storia a fumetti” era, per me, ossimoro destinato a non trovare mai composizione. L’unica storia per immagini a cui riconoscevo dignità era quella dei documentari televisivi. Ma qui le immagini erano reali, non certo disegni di autori che nel chiuso dei loro studioli, inconsapevoli della realtà, gettavano china sul bianco dei fogli per raccontare, come cantastorie, favole per bambini.

Tuttavia, quando, qualche giorno dopo, entrai da Giulio, decisi di leggere la quarta di copertina del fumetto in quattro volumi di Keiji Nakazawa, dal prezzo stampato ancora in lire (25.000 l’uno, per l’esattezza). Riporto integralmente: “Gen di Hiroshima è il tragico resoconto del lancio della prima bomba atomica…”. Sin qui continuavo a vedere l’operazione “letteraria” quasi come un’irriverenza verso la serietà e la drammaticità dell’evento narrato. Ma la quarta continuava: …“Un toccante racconto autobiografico…”. Fu quell’aggettivo, “autobiografico” a sconvolgermi: la bomba, in quel momento, era stata sganciata sulle mie convinzioni e le aveva lasciate in macerie. Un’autobiografia, una testimonianza diretta come quella dei sei sopravvissuti del libro di Hersey che però l’autore aveva deciso di non inserire tra le pagine di un libro di una blasonata casa editrice, bensì in un fumetto.

Il fatto cominciava ad assumere contorni nuovi.

Comprai i quattro volumi e cominciai a leggerli, inconsciamente – credo – per cercare di smentire il racconto attraverso il confronto con il libro, quello “serio” e confermare quello in cui avevo sempre creduto. Ma più mi addentravo nella lettura più mi accorgevo che quanto raccontato da Nakazawa era identico a quello che avevano visto i sei di Hersey; con la particolarità, tuttavia, che quella che leggevo adesso era una testimonianza fatta per immagini, vere fotografie in strisce di china. Fotografie, per giunta, nelle quali il tratto riusciva ad esprimere anche i sentimenti del fotografo (potere che spesso ad un vero fotografo è negato).

Se avessi letto Gen prima del libro della Piemme probabilmente - proprio perché si trattava di un fumetto e proprio perché io ero quello che ero - l’avrei trovato esagerato ed avrei confermato le mie idee sulla historieta: ad esempio, quando Nakazawa, in alcune strisce, disegna uomini con la pelle che, liquefatta, scivola via dagli arti. Ma di pelle liquefatta parlavano anche i sei di Hersey. Così ho capito.

Nakazawa non disegnava affatto: ritraeva.

E la sua historieta era historia.

Oggi, a distanza di due anni, divoro fumetti storici che considero per quello che in realtà sono: reportages, documenti che hanno eguale dignità di libroni dalle copertine rivestite, fitti di parole e senza nessuna immagine.

Sono un pentito.

Non parlerò, per il momento, delle successive letture (non voglio bruciare subito il materiale per futuri articoli), ma voglio sottolineare una curiosità.

La quarta di copertina di Gen di Hiroshima continuava con dei commenti. Ne riporto uno: “Gen è uno di quei pochi fumetti che oggi sono in grado di compiere una magia: far nascere quei piccoli segni sulla carta dalla vita vera. Questa intensa e straziante storia brucerà nella vostra memoria come un cratere radioattivo e non potrete più scordarvela”.

Sono parole di quello che per me, allora, era soltanto un nome scritto in stampatello: Art Spiegelman.

Vito Carella